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    [Prelude]


    At the end of the world

    Quando l’uomo vestito di nero crollò al centro della pista da ballo, in un primo momento nessuno se ne accorse e le coppie continuarono a danzare.
    Turbini di colori - gonne come corolle fiorivano sull’onda del valzer, roteavano e volteggiavano facendo da corona intorno al corpo irrigidito da uno spasmo, che si inarcò in una posizione innaturale: i talloni e i gomiti puntati sul marmo pregiato del pavimento, il torace gettato verso l’alto. Sembrava che le costole, sul punto di staccarsi dallo sterno, stessero per bucare la carne e la stoffa del vestito, sbocciando in un fiore di raccapriccio.

    Or the last thing I see

    Una delle dame si fermò e spostò casualmente lo sguardo, dalle dita che posava con grazia sulla spalla del suo cavaliere, ai mosaici del pavimento.
    Un attimo dopo si portava entrambe le mani al viso e, dopo l’intervallo che occorse perché il suo cervello decifrasse correttamente quello che gli occhi vedevano, ruppe in un urlo di disperato orrore che salì al soffitto intrecciandosi alle spire dei serpenti di stucco dorato.

    If I die

    Sull’eco di quel grido, quasi si fosse trattato di una scintilla, l’uomo prese fuoco e la folla si aprì, indietreggiando e lasciandolo nel vuoto del centro del salone.
    Non fu l’accendersi e il crescere graduale di una fiamma, bensì un’ondata di fuoco, rapida e violenta, che sollevò un rogo improvviso, fiato e sangue dell’inferno, avvolgendo il corpo in una danza di fuoco e convulsioni.
    Il calore ne sfuocava i tratti, non abbastanza da mitigare l’orrore.
    Non abbastanza da impedire la vista della maschera sul suo viso che si consumava lasciando scoperta pelle candida che si scuriva nel rosso bruno e crudo della carne arsa; occhi grigio chiaro tra le ciglia bruciate, capelli biondo chiarissimo, fili di luna che si accartocciarono all’istante, ritirandosi su se stessi e scoprendo il cranio; labbra delicate che si spaccavano in un urlo silenzioso, quasi la stessa fiamma gli avesse bruciato in gola i versi inarticolati che gli sarebbero occorsi per gridare tutta la sua sofferenza.

    If I fall

    Alcuni pronunciavano il nome dell’uomo che moriva mentre la folla esplodeva nel caos di una fuga precipitosa: gente che lo aveva conosciuto a Hogwarts, gente che lo aveva odiato dopo. Il nome di un traditore che aveva mandato a morte un uomo amato, quel Silente che era stato faro nella disperazione e sicurezza nella paura, lasciando il Mondo Magico in balia di se stesso e dei suoi orrori.
    Un Mangiamorte che trovava la sua meritata fine tra le sofferenze, l’agonia che era l’unico compenso che aveva meritato.
    Un’altra voce gridò quel nome, alto tra le urla terrorizzate della folla, lo strazio che mostrava una corsa precipitosa verso il margine della follia.


    She dies

    - No! -
    Lei lo urlò con tutto il suo cuore e con tutta l’irragionevole passione che si crede possa smuovere i Cieli.
    E tutta la disperazione di chi conosce perfettamente la risposta tante volte ricevuta in cambio di preghiere fatte con lo stesso desiderio intenso di giustizia e pietà.
    No.
    Era l’ultima negazione, quella definitiva, oltre la quale c’erano solo la rabbia e la rinuncia senza rassegnazione.
    Per questo, nel pandemonio di urla e nella fuga rovinosa della gente - sedie dorate e fragili che si spezzavano, cristalli e porcellane che si infrangevano sul pavimento, orli strappati da piedi impazienti di trovare la via più rapida per uscire dalla villa - quando una mano le artigliò il braccio, lei si divincolò e cercò di correre in avanti forzando la corrente di corpi che la spingeva indietro.
    Correva per spegnere quelle fiamme o per abbracciarle, non lo sapeva nemmeno lei. Sapeva soltanto che non voleva che morisse da solo.
    Aveva affrontato tanti orrori: per amor suo, avrebbe affrontato anche l’ultimo.

    In my arms

    - Fermati, non puoi più fare nulla per lui -
    Quante volte aveva sentito la stessa frase? Lo stesso concetto tradotto dal tatto o dalla brutalità in mille perifrasi? In mezzo a una battaglia, quando piangeva un morto, sull’orlo del baratro di un letto d’ospedale.
    Adesso un braccio robusto le schiacciava la schiena contro un corpo duro, vestito di una porpora cardinalizia. Il giovane aveva perso da qualche parte la calotta e i capelli bruni erano scompigliati. Aveva perso anche la maschera e il suo viso, mutato dalla maturità e dal tempo, aveva un’altra eco che la riportava ai giorni della scuola. Non erano mai stati amici né si erano mai parlati, ma il fatto di non averlo visto in altre circostanze riportava la sua memoria esclusivamente a quegli anni.
    E all’immagine di una ragazzo alto e pallido, capelli di un biondo chiarissimo e occhi trasparenti.
    Sangue freddo, sangue di serpente.
    A quei tempi lei lo odiava e, dentro di lei, c’era ancora nascosta una scintilla dell’odio che aveva rovinato tutto.
    Ancora una volta.
    Un impatto di dolore nel dolore, così forte che la spezzò.
    Si accasciò tra le braccia del Cardinale che la sorresse trascinandola fuori dalla calca - gente che urlava scappando senza una meta, alcuni inciampavano e cadevano, altri li calpestavano senza accorgersene, accomunati solo dal panico che, alimentato dalle fiamme e dall’odore della carne che bruciava, cresceva fino a farsi insostenibile.
    Lei aprì gli occhi dopo appena qualche istante di oscurità. Troppo breve per averle medicato il cuore, abbastanza lungo per averle concesso quella tregua che rendeva ancora più duro l’urto della realtà.
    Un’immagine si inginocchiò davanti a lei, ancora abbandonata nell’abbraccio dell’uomo mascherato da Cardinale: un’immagine di mantelli neri a brandelli e una maschera di biacca, dita candide come calce viva, solo che adesso aveva in mano una bacchetta, invece della falce.
    La Morte al Ballo.
    If I fall
    (down)

    My Chemical Romance, The Ghost of you


    ******************


    You are
    Never coming home
    My Chemical Romance, The Ghost of you


    Raggi al tramonto, impigliandosi trai rami degli alberi, miniavano le foglie d’oro intenso e riversavano macchie di miele lucente sulla penombra del prato.
    Semioscurità e frescura nella sera di maggio, il sole che declinava nella dolcezza della sera, la quiete del parco immobile nel silenzio dell’abbandono. Rade, le foglie secche rotolavano sull’erba al gioco capriccioso di una brezza fredda dimentica della primavera inoltrata.
    Silenziose, le ombre della sera, allungavano sulla villa dita fumose che si impadronivano, gentili, delle pareti e dei tetti, dei balconi e delle terrazze, insinuandosi tra le colonne e accarezzando i fregi di stucco sulle cornici delle finestre.
    La stanza dove si trovavano era rivolta a occidente, e il tramonto la investiva riversandosi dalle alte finestre, un’alluvione d’oro rosato e di ombre, che dilagavano sul pavimento, lente come acque scure che spandono da una caraffa incrinata.
    Ombre che ammantavano i tappeti preziosi e i mobili intagliati, combattendo una silenziosa battaglia con gli ultimi scintillii di sole sui ninnoli di cristallo sparsi sui tavoli e sulla mensola del camino.
    - Posso fare qualcosa? – domandò lei.
    Il suo tono era sollecito e, senza voltarsi, lui ebbe la netta sensazione che si stesse torcendo le mani o che con le dita stesse tormentandosi il viso. Faceva sempre così quando era agitata.
    - No, non puoi fare nulla. Però sei venuta a trovarmi -
    Quanto potesse esserci di più simile a un ringraziamento, e la voce con cui pronunciò quelle parole era mite, quasi gentile.
    - Oh – fece lei.
    Il ragazzo a quella piccola esclamazione compiaciuta si voltò e gli parve che le sue guance si tingessero di una forte sfumatura d’argento, per il piacere e l’imbarazzo.
    - Sono contenta di farlo ma sai che non posso fermarmi molto – disse lei, dispiaciuta, - Se venisse a saperlo il Comitato per la Regolamentazione delle Creature Magiche sarei nei guai. Ti ho raccontato che cosa è successo quando avevo deciso di tormentare Olive Hornby che mi prendeva in giro per via degli occhiali -
    - Sì – una nota di impazienza nella voce di lui – Certo -
    Aveva sentito quella storia forse cento volte, nei bagni di Hogwarts e in quell’ultimo periodo, nella sua casa.
    Sua.
    Non più. Non secondo loro.
    Era disposto ad ascoltare di nuovo quella stupida storia patetica di una ragazzina congelata dalla morte nel momento più buio e meschino della sua adolescenza? Chiusa in un bagno a piangere, sopraffatta dallo scherno dei suoi compagni fino al punto di votarsi a una parvenza di vita per perseguitare la sua aguzzina.
    Sì, era disposto.
    Lo comprese, sopraffatto dal disgusto per se stesso, quando sentì che lei stava ricominciando a raccontare quella storia tediosa senza che cercasse di impedirglielo.
    Olive Hornby. Comprenderla non era affatto una cosa difficile. La dura legge delle caste scolastiche: i sopraffatti, i sopraffattori e coloro che decidevano di non immischiarsi, in quella scuola invasa da creature patetiche che, in gran parte, erano soltanto bestie da macello. Spazzatura di vario genere, pezzenti e gente che non aveva davanti a sé un futuro degno di quel nome; Mezzosangue, figli di Babbani, Traditori del Sangue, semplici mezzacasta senza posizione sociale che non avevano nulla a cui aspirare se non un posto nel seguito di qualcuno di più importante, se fossero stati abbastanza furbi da guadagnarselo.
    Un sorriso divertito sfiorò le labbra del giovane che dovette nasconderlo voltandosi verso la finestra, davanti all’elenco senza fine dei tormenti subiti da Mirtilla Malcontenta, al tono della sua voce querula e ferita nel rivangare una serie di noiosi eventi e insulti triti.
    - Devo andare -
    Stava quasi per dirle di tacere quando lei pronunciò quelle parole.
    Una pausa; il sole che ormai sprofondava verso l’orizzonte dietro gli alberi, le ombre della sera che non trasudavano più oro, bensì buio, nel vuoto del parco.
    - Capisco -
    Una stretta allo stomaco, spasmo involontario nel sapere che ci sarebbe stato soltanto silenzio da lì a qualche istante.
    Forse se fosse stato gentile sarebbe tornata, così si stampò sulle labbra un sorriso e si cacciò, disinvolto, le mani nelle tasche dei pantaloni.
    La guardò diritta in faccia e continuò a sorridere, socchiudendo gli occhi perché lei avesse meno spazio per leggerne la freddezza.
    - Torna quando vuoi – disse e la mano affusolata e pallida si mosse in un gesto indolente, giusta eco di quell’invito non troppo entusiasta, ma pervaso da una trepidazione vaga, quasi guardinga. Accorgendosene, lui lasciò ricadere di colpo la mano e rivolse il profilo alla finestra, il viso che si induriva, il bisogno cancellato dal sorriso che adesso si spegneva in un’espressione di superiorità.
    - Tornerò -
    Ignorò la sensazione di sollievo suscitata da quella parola e si concentrò sul fastidio.
    Il piccolo fantasma che aveva accolto le sue confidenze disperate e i suoi singhiozzi nella sudicia e umida solitudine di un vecchio bagno, rimase a fissarlo con occhi adoranti; poi disparve e lui si ritrovò a fissare i fregi di un arazzo che andava lentamente scurendosi mentre le ombre prosciugavano le ultime tracce del giorno. Se voleva accendere una luce, doveva prendere la precauzione di scendere nelle stanze segrete dei sotterranei: la villa dall’esterno doveva sembrare disabitata come in realtà avrebbe dovuto essere.
    Draco Malfoy si lasciò cadere su una poltrona e raccolse le gambe stringendosele al petto. Posò la fronte sulle ginocchia e lasciò finalmente andare il tremito che gli scuoteva le spalle, la durezza del viso che si incrinava in una smorfia, i denti che si serravano per trattenere quel nodo che gli faceva dolere la gola.
    - A presto, Mirtilla -
    Pronunciò quelle parole in tono bassissimo, angosciato dal pensiero di sentire soltanto la propria voce intorno a sé.

    *



    I never said I'd lie and wait forever
    If I died we'd be together
    I can’t always just forget her
    But she could try

    My Chemical Romance, The Ghost of You


    Quella festa era stata una pessima idea, Hermione Granger sapeva di non essere la sola a pensarla in quel modo.
    Nei giorni che avevano preceduto il Ballo, aveva avuto la netta impressione di scorgere parecchie espressioni di muta disapprovazione alla sola menzione della festa alla villa di campagna dei Malfoy: frasi in sospeso accompagnate da alzate di spalle, le labbra strette della signora Weasley, Arthur Weasley che invece di rispondere puliva accuratamente gli occhiali e borbottava qualcosa senza guardarla in viso.
    In generale, sembrava che tutti trovassero quell’idea alquanto sinistra: un Ballo in Maschera alla fine della guerra, quando la conta dei morti non era ancora finita e le ultime sacche delle forze oscure non ancora liquidate.
    Le forze dell’ordine del Ministero impazzivano da giorni per organizzare la sicurezza, i consiglieri del ministro andavano su e giù chiedendosi se fosse davvero il caso di riunire tante personalità in vista del Mondo Magico in una villa appartenente a un celebre mago oscuro, innalzato ufficialmente agli altari del tradimento ormai da quasi sei anni, scomparso da quattro, e probabilmente morto da più di uno. Un ballo mascherato, per Merlino, sbottava la signora Weasley, irritata davanti alle espressioni entusiaste dei suoi figli; un ballo dove la gente era libera di circolare celando la propria identità anzi era invitata a farlo.
    Rufus Scrimgeour però era stato irremovibile, con la stessa determinazione con cui aveva dichiarato al Mondo Magico che sotto il suo ministero il regno del terrore sarebbe terminato, aveva decretato che la guerra era finita.
    La fine della guerra significava il nuovo inizio della vita normale nuova di zecca che il Ministro e i suoi Auror avevano contribuito a garantire al Mondo Magico. Una grande festa nella villa dei Malfoy, posta sotto sigilli due anni prima, doveva essere lo scenario simbolico della vittoria sul Lato Oscuro.
    Una villa che presto sarebbe stata venduta all’asta, lasciando secoli di tradizione familiare alla mercé di chi l’avrebbe considerata soltanto un trofeo.
    La situazione, Hermione lo sapeva bene, era molto diversa da quella descritta nei titoli della Gazzetta del Profeta, una sequela di estasiate lodi a Harry Potter e di auguri per una pronta rielezione di Scrimgeour alla fine del suo mandato. Alle spalle di quell’ostentazione di sicurezza, dei negozi che si riempivano e delle mille piccole attività che riprendevano, c’era la gente che continuava a morire, quella relegata nelle camere mortuarie del San Mungo e nei trafiletti delle ultime pagine dei giornali, in attesa che si chiarissero le circostanze della loro dipartita; c’era la muta ostinazione di Harry che rifiutava di presenziare alle manifestazioni del Ministero e si scrollava di dosso il braccio del Ministro davanti ai fotografi. Tra quei due, uguale indomabile volontà, ci sarebbe stato rispetto e forse, un giorno, comprensione. Mai affetto, a dispetto delle dichiarazioni del portavoce del Ministro e del silenzio ostinato di Harry.
    Dietro quel ballo in maschera c’era la gente ancor rinchiusa ad Azkaban senza regolare processo, c’era la ferma opposizione di Harry, irremovibile nel rifiutarsi di avallare le posizioni del Ministero nella scelta dei metodi per liquidare il Lato Oscuro alla fine della guerra aperta.
    Harry che allontanava gli Auror dal cadavere di Severus Piton, un attimo prima che il fuoco lo sfigurasse e consumasse, Harry che sbarrava loro la strada per permettere a Malfoy di fuggire.
    Harry, per il quale la gente provava un timore pari alla gratitudine, guardato con una circospezione troppo vicina al sospetto da chi si domandava più o meno ad alta voce di quale natura fosse il suo potere per permettergli, appena ragazzino, di sconfiggere il Male incarnato.

    In ogni caso Harry aveva dichiarato che a quel ballo non ci avrebbe messo piede.
    Ron avrebbe sbuffato e si sarebbe lamentato, ma alla fine avrebbe deciso di uniformarsi alla decisione dell’amico nonché del resto della famiglia.
    Ginny era infuriata, Fred e George naturalmente avrebbero fatto di testa loro, gli altri figli invece avevano deciso di restare a casa; mamma Weasley, quasi in lacrime per la commozione davanti a quello sfoggio di buon senso, aveva promesso una cena sontuosa per la sera del ballo.
    Hermione aveva osservato in silenzio il vestito che aveva preparato e non aveva espresso nessuna opinione.

    *


    Nemmeno il tempo aveva benedetto quella serata. Sul rigoglio di fiori meravigliosi che traboccavano dalle aiuole della villa, cadeva una pioggerella fitta e insistente, piegata da un vento fresco che faceva gemere le imposte. Quel rumore sinistro che si perdeva nella musica, risuonava, vicino e insidioso, quando dalle finestre si lasciava spaziare lo sguardo su quel regno di oscurità che era il parco della villa, al di là dei vetri rischiarati dalle luci scintillanti del salone.
    Il ballo si svolgeva negli enormi saloni a pianterreno che davano sulle terrazze a colonne, un esasperante monumento all’opulenza delle antiche famiglie. Intagli aerei ritraevano serpenti che guizzavano in mezzo ai rovi, inerpicandosi fra le colonne che decoravano le sale, strisciando sui soffitti tra medaglioni di stucco a cui erano appesi pesanti lampadari d’oro e cristalli fatati che rischiaravano a giorno l’ambiente.
    - Si sta divertendo? -
    A distoglierla dai suoi pensieri era stato uno sconosciuto in abito cardinalizio con un bicchiere in entrambe le mani. Il taglio attillato del vestito porpora metteva in evidenza la figura alta e snella, dietro la maschera di seta nera due occhi azzurri scintillavano di malizia spostandosi sulla figura di lei con sfacciato quanto lusinghiero apprezzamento.
    Hermione sorrise, un po’ nervosamente.
    - Non particolarmente -
    - Posso fare qualcosa per rimediare? -
    I capelli sotto la calotta porpora erano bruni, quasi neri, la maschera di seta gli copriva gli occhi lasciando scoperto il naso e una bocca grande, fatta per il sorriso. Anche senza la maschera però dubitava che sarebbe riuscita a riconoscerlo: i suoi tratti gradevoli non le sembrava avessero nulla di familiare.
    - Per ora questo può bastare – rispose lei in tono leggero, prendendogli un bicchiere con la mano guantata.
    Gli sorrise con una civetteria che non le apparteneva, il gesto con cui si portò alle labbra il bicchiere, rivolgendo al giovane un’occhiata in tralice, aveva un brio e una sicurezza di cui non si sarebbe creduta capace.
    - Posso fare di meglio – lo sguardo del giovane indugiò prima nei suoi occhi poi si spostò sulla zona al centro del salone dove una folla di coppie danzava in un turbine di abiti variopinti e di petali di fiori che cadevano dal soffitto in una pioggia ininterrotta e profumata che svaniva a un soffio dal pavimento di marmo.
    Hermione sorrise ancora – Non sono sicura di aver capito – disse a voce bassa.
    - Un ballo – spiegò lui – L’abito che porto non mi permette altro -
    La risata sommessa con cui gli rispose aveva un suono vellutato, la interruppe coprendosi la bocca con le dita, voltando appena il capo per nascondergli la sua incredulità davanti al proprio comportamento.
    Era uno sconosciuto, come lo era lei, per lui e per il resto delle persone riunite nel salone o che vagavano per il patio e le terrazze della villa, sotto i folti pergolati che offrivano un riparo profumato dalla pioggia che annebbiava la notte.
    Sconosciuti che tra loro, con ogni probabilità, si conoscevano perfettamente.
    Hermione sorrise ancora dietro le dita, il raso del guanto era morbido come un bacio, le bollicine dello champagne erano scintille calde che gorgogliavano dietro la fronte; sorrise ancora con gli occhi dietro la maschera di seta bianco argentea che le copriva la parte superiore del volto. Al riparo di un travestimento molte cose diventavano lecite, poteva gettare sorrisi e sguardi da smettere come la maschera che indossava, una volta finita la notte.
    - Potresti impartirmi una benedizione -
    La risata, che fece seguito a quella risposta impertinente, era calorosa e sinceramente divertita. Lo sconosciuto abbassò gli occhi su di lei e il suo sguardo parve addolcirsi. Improvvisamente lei pensò che nonostante avesse un viso giovane, il suo sguardo fosse incredibilmente vissuto; scomparsa la favilla della malizia, limpidi e azzurri, quegli occhi sembravano cieli che avevano visto sotto di sé mari e fiumi non sempre puliti.
    Sollevò una mano per posargliela sulla sommità del capo, con gentile circospezione, come se temesse di sciupare il delicato lavoro di riccioli e perle sui suoi capelli.
    Era un gesto paterno, del tutto privo della giocosa seduzione che gli aveva visto nello sguardo e nei gesti fino a poco prima. Una strana pace parve irradiarsi dalle dita e soltanto quando sentì le spalle distendersi e la stretta al cuore allentarsi, lei comprese quanta irrequietezza e quanta insoddisfazione avessero guidato i suoi passi fino a quel ballo.
    - Hai la mia benedizione -
    La luce delle candele sfumò sui contorni della grande croce d’oro appuntata sulla veste del giovane, con un riverbero così intenso da suggerirle che, al nodo che le serrava la gola, si era aggiunto un velo di lacrime.
    - Che cosa rappresenta la tua maschera? -
    Aveva usato proprio quella parola, maschera, non travestimento, non costume.
    Maschera.
    Indietreggiò di un passo poi di un altro, nel sorriso di lui c’era una comprensione così intensa che le parve potesse leggerle dentro capitoli di anima che lei non riusciva nemmeno a individuare, intere frasi scritte dalla sua mente, cancellate con mano ferma per non doverle riscoprire un giorno, per caso.
    Hermione allargò le braccia fasciate fin sopra i gomiti da eleganti guanti di raso, un gesto indifeso che offriva, con semplicità, alla vista, il vestito bianco argenteo che scendeva in un panneggio di lucido raso fino al pavimento, lasciando scoperte solo le punte delle scarpette; la chioma bianca dai riflessi azzurro-argentei che le era costata un complicatissimo incantesimo, raccolta sopra la testa da un pettine di perle, si riversava in una cascata di riccioli sulle spalle e la schiena.
    Il viso era di un pallore mortale e gli occhi di un’oscurità divorante sembravano aver prosciugato ogni traccia di colore dalla sua intera persona.
    - Un fantasma – rispose – Sono un fantasma -

    *


    I cry in candlelight
    I need you here
    The vivid visions come
    Then disappear

    Darling Violetta, Second Skin


    Era vestito completamente di nero. Nero il completo di un’eleganza severa, il mantello e le scarpe lucide. Solo il candore della camicia e della rosa che portava appuntata alla giacca rischiaravano il lutto vestito in quel giorno di festa, quasi si preparasse a incontrare la Morte intervenuta al Ballo.
    Lo aveva incrociato qualche minuto prima nel suo girovagare ebbro tra la gente. Senza preavviso la folla si era aperta e lui le era comparso davanti, odore di fiori sotto la pioggia e di nebbia di maggio sopra l’erba dei prati falciata di fresco; improvviso fulmine nella notte, che taglia i contorni dell’immagine sulla retina, in un istante di luce così intensa da lasciare negli occhi cicatrici livide e colorate anche una volta spenta.
    Lei si era bloccata un attimo prima di finirgli addosso, allontanata dal cerchio di ostilità che emanava, una barriera che respingeva bruscamente il mondo al suo posto prima che potesse toccarlo.
    Meravigliata e intimidita, era rimasta con gli occhi inchiodati nei suoi e le labbra socchiuse su un’esclamazione ferma da qualche parte in gola insieme al respiro.
    Aveva capelli lisci di un nero profondo macchiato dalla luce chiara delle candele, nero serico e ricco come la maschera che gli copriva la parte superiore del viso, riposando sulla pelle che era marmo sotto la luna, latte con appena una goccia di sangue sugli zigomi alti e larghi, labbra strette in una linea dura, lo sguardo diretto e insieme elusivo, fisso su di lei con un impatto quasi fisico, tangibile forza che la spingeva indietro.
    Occhi chiarissimi - alieni nella totale estraneità a quanto lo circondava - che l’avevano abbandonata nell’esatto momento in cui lei si era tirata di lato cessando di sbarrargli il passo. Occhi indifferenti che avevano guardato di nuovo dritto davanti a sé mentre le passava a fianco, sfiorandole il braccio col mantello nero umido di pioggia.
    Al suo passaggio aveva lasciato solo il petalo di un fiore, sfuggito alle pieghe dei suoi vestiti e che denunciava una sortita nella notte del parco, al di fuori della frenesia della festa.
    Quando si era scoperta a osservare pensosa, sul palmo della propria mano, quel frammento di rosso vellutato, elargito dalla corolla di una rosa, aveva capito di essersi chinata a raccoglierlo.
    Un morbido talismano da tenere rinchiuso nella gabbia delle dita, mentre riprendeva a vagare tra la folla con il bicchiere ormai semivuoto in mano e le bollicine di champagne che le pizzicavano il naso e ammorbidivano le forme intorno a lei in figure tenere e palpitanti di colori.

    Remembering you standing
    Quiet in the rain as
    I ran to your heart to be near

    The Cure, The Picture of you


    Lo rivide qualche minuto dopo, attraverso la barriera diafana di una vetrata, che nascondeva all’udito il ticchettio della pioggia sul marmo della terrazza e sulle foglie turgide che traboccavano dai vasi.
    Rivoli d’acqua di una limpidezza inaudita, purezza intoccata di cielo, che stillavano dai tralci di glicine dei pergolati sui suoi capelli neri, e sulla mano bianca aggrappata a un ramo, scorrendo tra le sue dita in una carezza cristallina alla quale lui non faceva nulla per opporsi.
    Acqua che aveva la medesima, pura trasparenza degli occhi che, fulminei, si girarono verso di lei, sorprendendola nell’atto di rubare un istante alla sua solitudine.
    Lei si affondò i denti nel labbro inferiore e ricambiò quello sguardo rivelando docilmente la sua curiosità; rimase immobile, la testa piegata da un lato, la mano inguantata posata sul marmo fresco di una colonna, fino a che lui non si volse e scomparve, inghiottito dalle pareti di foglie delle stanze buie del parco notturno.

    *



    At the end of the world
    Or the last thing I see
    You are
    Never coming home
    Never coming home


    Gli archi di colori tracciati davanti ai suoi occhi non erano altro che le coppie che volteggiavano al centro del salone.
    Draco Malfoy si ritrasse nell’ombra, nascondendosi parzialmente dietro una griglia intagliata su cui rampicava una pianta di roselline, il vento di maggio scompigliò i rami acuminati, disperdendo una pioggia di petali gualciti ai suoi piedi e portando lontano il profumo tenue e antico dei fiori; poi si allontanò calpestando il tappeto d’erba vellutata, perfettamente regolato dai giardinieri, lasciandosi alle spalle il salone da ballo che si ridusse a quadri colorati, appesi sulla facciata della villa, incorniciati dagli stucchi delle finestre. Quadri scintillanti di cristalli che piovevano di mille luci sfaccettate dai soffitti, di calici che si alzavano in un brindisi, di risate scroscianti sulle note di un valzer che, lieve, si diffondeva nella quiete del parco.
    La luna semipiena velava il cielo di una luce morbida, oscurando le stelle e trasformandolo in un’uniforme distesa simile al velluto. In quella luminosità quieta e imperiosa, i viali di ghiaia bianca sembravano sentieri lunari, planimetrie di continenti seleniti, topografie precise su cui leggere i percorsi intorno a Mari delle Nubi – dove l’umidità saliva dal prato in una caligine vischiosa – e Mari delle Piogge – distese d’erba imperlata di gocce lasciati dal recente temporale – e Mari della Serenità o quanto più simile ad essi potesse esistere sotto forma di chiostre dense di ombra tra gli alberi dove era difficile si avventurasse qualcuno.
    Il piccolo belvedere dava su una valletta artificiale sul fondo della quale scorreva un sottile corso d’acqua, scrosciare leggero che si mescolava al valzer quando folate di vento trasportavano le note dalla villa.
    Sulla balaustrata di marmo, colonnine panciute appena velate di muschio e un largo corrimano che recava ancora l’impronta di gomiti e pensieri, c’era appollaiato qualcuno che, non appena scorse il giovane, agitò un braccio in un gesto allegro di benvenuto.
    Malfoy irrigidì le spalle e la mano infilata nel mantello si strinse intorno all’impugnatura della bacchetta; poi riconobbe quel sorriso canzonatorio e si rilassò.
    - Non ti avevo riconosciuto – commentò, appoggiando gli avambracci alla balaustra e lasciando, per pura abitudine, che lo sguardo spaziasse oltre la valletta, dove le eleganti simmetrie dei giardini si fondevano con macchie selvagge di brughiera.
    - Invece sono io – rispose l’altro con una risata – Non preoccuparti: questo posto non è facile da trovare se non si conosce bene il parco -
    - Lo so -
    - Sai, - aggiunse l’altro in tono pensieroso – ricordo ancora quando Lucius comprese quanto a tua madre piacessero i giardini. Naturalmente fece in modo che avesse i più sfarzosi di tutto il Regno Unito -
    Draco Malfoy sorrise di un dolore improvviso che gli dilaniò il petto sanguinando dalle labbra contratte – Davvero? –
    - Per Lucius il lusso era semplicemente un diritto – il giovane fece una pausa – Tu dovevi ancora nascere a quei tempi, ma io ricordo benissimo squadre di maghi giardinieri che erigevano il gazebo e la galleria e realizzavano il roseto in una notte soltanto -
    Draco annuì e si passò una mano trai capelli. L’altro seguì quel movimento, interessato – Neri? – domandò – Credi sia sufficiente come travestimento? –
    - Fino ad ora ha funzionato e del resto non ho avuto modo di pensare a qualcosa di diverso. Tra l’altro volevo fare di tutto per non attirare l’attenzione. Naturalmente io mi trovavo già all’interno della villa, quindi non ho dovuto passare i controlli all’ingresso. A quanto pare quelli del Ministero non hanno scoperto le camere e le gallerie segrete, così dovrei essere relativamente al sicuro -
    Tuttavia l’attenzione di qualcuno l’aveva suscitata, un paio di occhi bruni si erano risvegliati alla sua vista, seguendolo con un una curiosità rapita, da bambina inconsapevole dei pericoli del bosco stregato; con un genuino e indifeso calore senza macchia di sospetto.
    - Capisco -
    - La verità è che non ce la facevo più. Sarei intervenuto a questo dannato ballo anche a volto scoperto -
    - Capisco anche questo -
    Il giovane aveva un’espressione di reale simpatia. Il viso da poco più che ventenne aveva un’aria dolce e lineamenti aristocratici. Era un volto da ragazzo posato, gentile con gli amici, ma privo di quella scintilla di fascino che richiama la popolarità in maniera del tutto involontaria; il ragazzo che studia con impegno silenzioso e regala ai genitori risultati soddisfacenti, senza tuttavia riuscire a far dimenticare il vuoto lasciato da una personalità che lo avrebbe surclassato.
    Il ruolo di persona brillante, nella famiglia di un ragazzo con quella faccia, di solito spettava a un altro.
    I suoi capelli conservavano ancora il ricordo di un colore corvino, la maniera in cui un folto ciuffo di capelli gli cadeva sugli occhi parlava più di vago disordine che di ribellione.
    - Allora che ci fai qui? – sbottò rivolto a Draco che si voltò di scatto per guardarlo, perplesso da quell’insolita veemenza – Hai corso un rischio, ricava qualche vantaggio! Torna alla villa e bevi il loro champagne, mangia dei dolci, trovati una piccola sconosciuta e balla, gioca a fare l’amore con lei -
    Una piccola sconosciuta.
    - Non ha senso rischiare la pelle solo per vagare in un giardino che conosci alla perfezione -
    Draco ebbe un sorriso tenue, malinconico e beffardo – Mi stai invitando ad avere coraggio? –
    L’altro scoppiò a ridere e la sua risata fu l’eco dei raggi d’argento che inondavano il belvedere, rimbalzò sulla superficie del fiume con il suono di monete che si spargono su una lastra di cristallo.
    - Già – rispose con brio – Del resto hai fatto di peggio, no? Voglio dire, se si parla di coraggio entrambi abbiamo già dato -
    Draco sogghignò – E preso. Non diciamo cosa, né dove, però –
    Risero entrambi, il medesimo sarcasmo che si mescolava alla cupa constatazione dei sentieri tortuosi che li avevano portati, insieme, su quel belvedere.
    - Esatto – replicò l’altro – Vai a divertirti un poco, cugino: ruba a quegli ipocriti una bottiglia di vino e la virtù di una delle loro belle ragazze -
    - Non ti facevo così intraprendente -
    - Non lo ero, infatti, tranne che negli ultimi giorni della mia vita. Ma scoprire cosa potevo fare ha reso quei momenti inebrianti -
    Il giovane gettò il capo all’indietro cogliendo sulle labbra, ancora atteggiate a un sorriso contento, il soffio del vento profumato di fiori e di valzer.
    - Del resto è questo il coraggio, vero? – mormorò in tono trasognato, ormai lontano – Disobbedire a qualcosa che vuole scegliere per te -
    - Lo so – rispose Draco, mentre la figura argentea dell’altro si dissolveva nella luce lunare – Lo so, Regulus –

    You are
    Never coming home
    Never coming home

    My Chemical Romance, The Ghost of You


    *



    La Morte al Ballo.
    Dopotutto c’era da aspettarsi che sarebbe intervenuta.
    Hermione nascose tra le dita una smorfia inquieta e seguì, con un riso inorridito negli occhi, la figura alta e ammantata di nero cencioso che si aggirava tra la folla con una lunga falce in mano. Gli altri partecipanti al ballo prendevano la cosa con spirito: il Giocatore rimescolando a colpi di bacchetta un mazzo di carte la invitò per una partita; lo Scacchista, con un gesto folle, la sfidò; il Marinaio le chiese se era prevista burrasca per la notte.
    La Principessina, con il diadema sbilenco sul capo e i capelli che pendevano in ciocche patetiche e disordinate sulla fronte, le domandò, di grazia, di non rapirle lo sposo e subito dopo dovette chinarsi per raccogliere lo strascico del vestito che si era malamente impigliato nei tacchi.
    La Regina invece dichiarò che l’avrebbe aiutata ordinando che a venti sudditi fosse tagliata la testa.
    La Morte non si soffermava, agitava una mano coperta di biacca e continuava a vagare tra la folla, apparentemente a caso.
    - Non guardarla, non sei tu che morirai stanotte -
    La voce gracchiante, fortemente accentata, che la costrinse a voltarsi, brusca ed esterrefatta, proveniva da una donna di età indefinibile, il turbante in testa su un costume dai colori sgargianti, con una predominanza d’oro che conferiva riflessi d’ambra alla pelle nera.
    - Come dice? -
    L’istinto dell’indagine spazzava la sua persona di correnti fredde che calmavano il sangue e l’ansia, e la inducevano a stamparsi sulle labbra un sorriso di circostanza mentre, riluttante e risoluta, si avvicinava alla poltrona dove la donna stava seduta con le mani quietamente inattive in grembo e il volto parzialmente in ombra su cui si allungava l’arancio dorato delle fiamme del camino lì accanto.
    - Ci conosciamo? -
    Hermione sorrise e si lasciò cadere graziosamente su una sedia in stile impero che sembrava messa lì apposta.
    - Impossibile dire chi si conosca e chi meno, in questo posto –
    Quella risposta aveva l’aspetto di un nodo che poteva essere sciolto in molte maniere. Hermione si costrinse ad abbassare lo sguardo perché l’altra non potesse leggere il lampo interessato che le attraversò lo sguardo, dopodiché ritentò, tendendo la mano inguantata di bianco azzurrato.
    - Amelia – si presentò.
    La donna la soppesò con un unico sguardo tramite il quale sembrò spogliarla dall’abito e dalla maschera, scioglierle i capelli e ritingerli di castano scuro, vestirla coi soliti abiti sportivi e comodi.
    - Dammi l’altra, di mano -
    Hermione annuì e la donna le afferrò con gentilezza la sinistra rigirandola in modo da esporre il palmo, nella sua mano era comparsa una bacchetta che rivolse verso quella della ragazza.
    - Evanesco -
    Un’improvvisa folata di fresco e di calore proveniente dal camino le toccò la pelle nuda della mano prima ricoperta di raso.
    - Adesso Ulrica ti leggerà la mano – disse la donna – Poi riavrai il tuo bel guanto -
    - Non credo a queste cose -
    - Nessuno ci crede fino al momento in cui accadono -
    Le sfiorò lentamente le linee disegnate sul palmo e per svariati minuti rimase assorta in quell’esame, china sulla sua mano come se fosse fitta di geroglifici da decifrare.
    Hermione sorrise – Farò un viaggio e incontrerò un uomo bruno? – domandò, cercando di non avere un tono troppo condiscendente.
    L’occhiata con cui la trapassò l’indovina però le fece morire il sorriso sulle labbra – Oh sì, – disse in tono indecifrabile, ma prima che la ragazza potesse aggiungere qualcosa, continuò, in fretta – Ma bene, una vita perfetta. I miei complimenti, ragazza -
    Dal tono con cui pronunciò quelle parole si sarebbe detto che un complimento fosse l’ultima delle sue intenzioni.
    - Vediamo – le dita adunche della donna si muovevano veloci sul suo palmo facendolo formicolare – Un lavoro che ti soddisfa e una brillante carriera davanti. Una famiglia affettuosa, degli amici fedeli, un ragazzo …oh sì, perché c’è sempre un ragazzo. Lo hai inseguito per anni, con tutta la caparbietà del tuo carattere, fino alla sua capitolazione, lo sai? Sì, naturalmente lo sai. Ma qualcosa ha rovinato tutto, se così possiamo dire. Questione di punti di vista -
    Cinica, agghiacciante. Nella pausa che seguì Hermione si accorse che una goccia di sudore le correva trai seni e che la schiena le prudeva sgradevolmente di brividi come fili di ferro passati ripetutamente lungo la spina dorsale.
    - A un tuo cenno ti avrebbe chiesto di sposarlo. Tutto quello per cui hai lavorato nella vita si sarebbe suggellato sopra la tua testa – mormorò dolcemente l’indovina – Questo pensiero non ti rende assolutamente felice? -
    C’era una nota beffarda nella sua voce e Hermione comprese come fosse ormai del tutto inutile rivolgerle un sorriso cicatrizzato di muscoli facciali contratti e labbra intorpidite al di sotto di uno sguardo pieno di allarme.
    Nessuno di coloro che le stava intorno le avrebbe mai parlato in quel modo, non con quell’ironia mista a compatimento e una certa, inequivocabile, nota di fondo di irritazione.
    “Sopra la tua testa”.
    Se non avesse appena parlato di matrimonio, Hermione avrebbe giurato di aver visto con gli occhi della mente, per una frazione di secondo, il coperchio di una bara che si chiudeva sopra di lei.
    Dallo sguardo divertito dell’indovina, si sarebbe detto che le stava leggendo quell’immagine negli occhi, con calma, senza fretta, come se sapesse benissimo che in quel momento lei era così disorientata da non riuscire a cancellarsela dalla mente.
    - Non guardarmi in quel modo – le disse – Non sono io che ti sto facendo sentire in trappola -
    Hermione ritrasse la mano, in fretta – Basta così –
    Con un colpo di bacchetta fece Apparire di nuovo il guanto di raso che le fasciò le dita e la mano salendo fino al gomito. Compì quel gesto rapidamente, senza curarsi di cosa lasciasse trasparire: il bisogno palese e quasi inconsapevole di cancellare alla vista le linee traditrici sul palmo della propria mano, mappe indiscrete dei sentieri di una parte dell’anima che doveva restare inesplorata da tutti.
    Forse persino da lei.
    - Incontrerai il tuo uomo bruno e farai un viaggio -
    Le banalità di un’ indovina da fiera, di quelle che alle feste babbane si potevano incontrare sotto un tendone provvisorio ornato di specchi, nelle penombre di volgari lustrini e drappi di seta finta.
    - Ma lui non è bruno e tu non ti muoverai dal luogo in cui ti trovi -

    *



    Could I? Should I?
    And all the things that you never ever told me
    And all the smiles that are ever ever...
    Ever...

    My Chemical Romance, The Ghost of You


    - Vuoi ballare? -
    Che cos’è una vita perfetta?
    In quale istante l’ordinario muta in un’uniforme distesa di serenità, quell’aspetto atteso e irreale della vita che si osserva con sollievo e gratitudine?

    (Inquietudine?)
    Quell’assenza di sobbalzi lungo lo scorrere di una giornata, la consapevolezza che la frattura, che spezza prima o poi l’esistenza di ognuno, c’è già stata e che il resto della vita sta già scorrendo; quella sensazione vaga d’ansia giustificata solo dal fatto di averla provata così a lungo che ormai è un riflesso incondizionato, l’ultimo senso con cui valutare la realtà.
    Svegliarsi al mattino con una distesa liscia di ore davanti, terreno fertile di silenzio dove coltivare muschi e licheni, macchie scure sull’apparente candore; un martellare sordo di pensieri rinchiusi sotto strati di pietra, tacitati da mille piccole azioni ad anestetizzare le domande.
    Era quello che volevi.
    Non sei, assolutamente,
    felice?
    C’era stato un momento in cui lo aveva creduto possibile, che solcare quel fiume nero – cadaveri come zattere alla deriva, gonfi di rigurgiti d’odio e paura – avrebbe significato approdare a una sponda sicura, navigli tranquilli e acque basse dove immergersi nel ricordo per soffrire soltanto un po’ dai lidi sicuri della guerra terminata.
    Ritagliata nel suo campo visivo da uno guardo sbalordito, la mano bianca sembrava sbocciare dal polsino rigido e immacolato, sospesa in aria in totale immobilità, mentre quella di lei, dietro la schiena, aveva preso a tremare irrefrenabilmente.
    C’erano vite possibili che avevano senso soltanto se viste dalla prospettiva del sogno: la realtà era qualcosa da toccare con gli occhi sbarrati di sconcerto e le mani di un cieco, tastando a tentoni superfici inaspettate e ferendosi in rovi imprevisti laddove si erano coltivati soltanto fiori.
    La mano di lui era bianca come un petalo e irta di spine
    (rischio)
    come la rosa che portava sopra il cuore.
    Ferirsi – e sapeva, con l’infallibile istinto della vittima di se stessa, che sarebbe successo - equivaleva a lasciare che il veleno le contaminasse le vene.
    Senza speranza d’antidoto, sarebbe morta piano nell’intervallo infinito tra la notte e l’alba o nello spazio tra l’inizio e la fine della parola “sempre”.

    Guardò quella mano, restava immota davanti ai suoi occhi, indifferente alla sua angoscia e alla possibilità di un rifiuto.
    Una mano che era whisky prima di impugnare un bisturi, il coltello affilato tra le dita di un assassino.
    La musica di un valzer era una cascata scrosciante di note, liquida, cristallina; precipitava dall’alto con la forza avvolgente dell’acqua, impigliandosi nei vestiti, scivolando sul viso e costringendola a battere le palpebre per vedere al di là di quel velo trasparente e solido che le scendeva sulle ciglia.
    Vuoi ballare?
    - Sì -


    Edited by •{ Dudina - 28/7/2009, 01:02
     
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